Esattamente due anni fa oggi.
Stavo seguendo un reportage sugli incidenti stradali. Dopo aver vissuto per una settimana nella Shock Room del PS dell’Ospedale di Bergamo la mattina alle 6 stacco e mi incammino verso casa. Sono in macchina quando suona il cellulare: è un responsabile del centro trapianti: “Rota, abbiamo il donatore. Un incidente stanotte. Tra 20 minuti partiamo se lei c’è bene…”
Giro la macchina e torno in ospedale. Partiamo con l’auto medica a sirene spiegate per un viaggio di 60km. Arriviamo, ci prepariamo ed entriamo in sala operatoria. Mentre attendiamo che portino “il donatore”: “Rota io devo operare, se sta male, non si sente bene, deve svenire o vomitare corra fuori io non ho tempo per lei”. Queste cose non mi impressionano più, purtroppo.
Anzi mi avvicino e vede che sono interessato. Mi spiega un po’ cosa sto guardando nel torace aperto e come funziona. Siamo in una fase molto “tranquilla” dell’operazione. Si rivolge all’infermiera e le chiede di accompagnarmi a prepararmi. Mi portano a lavare ed indossare camice e guanti da chirurgo. Io ancora non ho capito niente.
Rientro in sala bardato con gli avambracci sollevati. Come in IR. Mi sento un pirla.
“Rota, si avvicini. Guardi, questo è il cuore. E’ compromesso e tra 20 minuti cesserà di battere appena lo stacchiamo. Non può fare danni se sta attento. Lo prenda in mano e senta cosa è la vita. Lo faccia capire nelle sue foto. Lo dica come siamo forti e legati ad un filo nello stesso tempo”.