Sedrina, 23.05.2014
Alcune settimane or sono sono stato contattato da AEPER (http://www.cooperativaaeper.it/) con una richiesta apparentemente semplice: realizzare alcune fotografie da pubblicare sul Bilancio Sociale 2013 che illustrassero alcuni aspetti dell’universo della Cooperativa.
Provenendo per motivi professionali, di formazione, e d’inclinazione dal mondo dello storytelling per immagini (giornalistico e matrimoniale), dopo alcune riflessioni, ho proposto di evitare di realizzare immagini concettuali decontestualizzate (peraltro facilmente reperibili nei servizi di microstock) o anche solo immagini didascalico-documentarie prendendo una direzione decisa nel senso dello stile reportagistico.
Questa proposta non è priva di rischi in primis perché necessita di avvicinarsi ai soggetti non solo di testa ma, anche e soprattutto, di cuore e di pancia, richiede cioé di non essere spettatori passivi delle scene (di guardare, gesto passivo) ma di vedere (gesto attivo), toccare, comprendere. In altre parole di sentire.
Il reportage, anche se parte in certi casi da una precisa necessità della committenza, non è realtà, non ha in se’ volontà del vero ma, al contrario, richiede sempre una decisione da parte del fotografo ed una presa di posizione che parte dalla volontà di analisi della realtà per giungere ad un’interpretazione della stessa.
Da qui deriva anche la scelta radicale dell’utilizzo sistematico del bianco e nero che, a mio avviso, serve ad eliminare orpelli e distrazioni per giungere all’essenza delle cose.
Mi si chiede di raccontare – questa volta a parole – cosa ho visto in questi giornate; qui mi viene in aiuto una riminescenza scolastica, un’opera di I sec. d. C. giuntaci incompleta ma non per questo meno fondamentale: il trattato “sul Sublime”.
Si perché credo di essere stato toccato da un attimo di sublime non identificato necessariamente con il bello, ma con ciò che sconvolge, che provoca sbigottimento, sorpresa e spavento.
Al sentimento di spavento e preoccupazione iniziali per un progetto indubbiamente delicato per tematiche e modalità operative, in realtà ho incontrato persone, non operatori o fruitori di servizi, ho intuito cammini in una stessa direzione, non guide e “guidati”. Dove pensavo di essere tenuto ai margini ho trovato accoglienza. Dove il senso comune avrebbe immaginato scenari “patetici” ho trovato sorrisi rassicuranti e veri. Un mondo giocato tra “normalità” e fatica, proprio come nella vita di tutti.
In questo forse sta il “sublime”: tutti quanti educatori, assistenti sociali, psicologi, volontari, pazienti, ospiti dei centri, ragazzi e fotografi siamo tutti in cammino alla ricerca dell’uomo che è in noi stessi.