21 settembre 2019. Esattamente sei anni fa oggi.
Stavo seguendo un reportage sugli incidenti stradali. Dopo aver vissuto per una settimana nella Shock Room del PS dell’Ospedale di Bergamo la mattina alle 6,30 stacco e mi incammino verso casa. Notte difficile in cui è capitato di tutto tra cui uno spacciatore in escandescenze che ha menato tutti.
Sono in macchina quando suona il cellulare: è un responsabile del centro trapianti: “Rota, abbiamo il donatore. Un incidente stanotte. Tra 20 minuti partiamo se lei c’è bene…”
Giro la macchina e torno in ospedale. Partiamo con l’auto medica a sirene spiegate per un viaggio di 60km. Arriviamo, ci prepariamo ed entriamo in sala operatoria.
Mentre attendiamo che portino “il donatore” mi si avvicina il medico e mi dice: “Rota io devo operare: se sta male, non si sente bene, deve svenire o vomitare corra fuori io non ho tempo per lei”.
Queste cose non mi impressionano più, purtroppo.
Anzi mi avvicino e vede che sono interessato. Mi spiega un po’ cosa sto guardando nel torace aperto e come funziona. Siamo in una fase molto “tranquilla” dell’operazione. Si rivolge all’infermiera e le chiede di accompagnarmi a prepararmi. Mi portano a lavare ed indossare camice e guanti da chirurgo. Io ancora non ho capito niente.
Rientro in sala bardato con gli avambracci sollevati. Come in IR, per intenderci, come quelli veri. Mi sento un pirla.
“Rota, si avvicini. Guardi, questo è il cuore. E’ compromesso e tra 20 minuti cesserà di battere appena lo stacchiamo. Non può fare danni se sta attento. Lo prenda in mano e senta cosa è la vita. Lo faccia capire nelle sue foto. Lo dica come siamo forti e legati ad un filo nello stesso tempo”.